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domenica 7 settembre 2025

Ma che popolo siamo? Un popolo malato di mediaticità di mezzo.


a cura di Ermanno Faccio

Abstract

La guerra non è un destino ineluttabile, ma una malattia psichica collettiva. Alla luce delle Scritture (Vecchie e Nuove), della psicoanalisi freudiana, della filosofia di Galimberti e della clinica di Recalcati, il fenomeno bellico appare come il frutto di un oblio spirituale, del ritorno delle pulsioni di morte, della crisi di senso della civiltà tecnica e di un delirio paranoico di purezza. La violenza diventa così il sintomo di un contagio mentale che trasforma i popoli in masse deliranti. La guarigione è possibile solo ricordando la fraternità originaria che ci lega, accettando la fragilità umana e scegliendo la via della cura e della memoria al posto delle armi.


La guerra come malattia dell’anima

C’è un passo delle scritture che ammonisce: “Quando gli uomini dimenticano Dio, si scagliano gli uni contro gli altri, e la terra si riempie di sangue”. È il Libro di Mormon a ricordarci che la violenza nasce sempre da un oblio, da una dimenticanza spirituale: l’oblio della fraternità che ci costituisce. Là dove non si riconosce il fratello, si arma la mano.

Freud ci direbbe che la guerra è il ritorno del rimosso: la pulsione di morte, lasciata senza simbolizzazione, diventa padrona del campo. Ma non è un destino biologico: è il frutto di un contagio psichico collettivo. Quando l’Io non regge il peso dell’angoscia, cede alla fascinazione di un nemico immaginario: allora il soggetto si tranquillizza distruggendo l’altro. È un meccanismo nevrotico, ma su scala di popoli interi.

Galimberti aggiungerebbe che la guerra non è solo politica, ma una crisi del senso. Dove il pensiero si atrofizza e la tecnica prevale, l’uomo si riduce a ingranaggio cieco che esegue ordini, incapace di ascoltare la propria voce interiore. La violenza, allora, diventa la scorciatoia per colmare il vuoto di significato. La guerra è la malattia di una civiltà che non sa più pensare l’umano.

E Recalcati ci ricorda che ogni guerra nasce dall’illusione paranoica della perfezione: il nemico sarebbe colui che macchia la nostra purezza, colui che deve essere espulso per poterci sentire integri. Ma è un delirio. Il reale dell’altro non può essere cancellato senza cancellare noi stessi. Il corpo del nemico, ferito e umiliato, è lo specchio della nostra ferita non accettata.

Così, quando i popoli si ammalano insieme, la guerra diventa un sintomo psichiatrico collettivo: un tarlo che rode le menti, un’allucinazione condivisa che trasforma esseri umani in oggetti sacrificabili.

Per questo ogni guerra è sempre follia. Non è l’eroismo degli eserciti, non è la gloria delle bandiere, non è il destino delle nazioni. È l’incapacità di sopportare la fragilità che ci accomuna, la paura dell’altro che ci abita.

Solo un lavoro di memoria, di cura e di pensiero può guarire questa malattia. Solo riconoscendo che non esiste vittoria possibile quando muore un uomo, possiamo liberarci dal delirio.

La guerra non è necessità: è la nevrosi collettiva di un’umanità che ha smarrito il senso. E come ogni nevrosi, può essere curata. Ma la cura non sta nelle armi: sta nel ricordare che l’altro è il mio fratello, e che la sua vita è la mia vita.



Ecco la tabella completa e ordinata, con l’inserimento dei dati di Gaza e Aleppo, secondo le colonne richieste:

# Conflitto (luogo e periodo) Popolazione totale pre-conflitto Durata (mesi) Decessi stimati massimi % popolazione morta/mese % popolazione morta totale
1 Sri Lanka (2009) 400.000 2 70.000 8,75% 17,5%
2 Falluja (2004) 300.000 1 1.000 0,33% 0,33%
3 Mosul (2016–2017) 1.500.000 9 40.000 0,29% 2,66%
4 Grozny (1994–2000) 400.000 36 40.000 0,27% 10%
5 Gaza (2023–2025) 2.300.000 21 60.000 0,12% 2,61%
6 Aleppo (2012–2016) 2.000.000 48 34.000 0,03% 1,7%

Ecco alcune fonti solide e attuali sui dati relativi ai decessi nella guerra a Gaza e nella battaglia di Aleppo:


Dati aggiornati su Gaza

  • AP (Associated Press): al 29 luglio 2025, il Ministero della Salute di Gaza — ente controllato dal governo Hamas — ha riferito che oltre 60.000 palestinesi sono morti nel conflitto durato ormai 21 mesi (dal 7 ottobre 2023) (AP News, The Washington Post).

  • Reuters conferma un dato molto simile: "Oltre 60.000 persone sono state uccise a Gaza" come riportato fin dal 29 luglio 2025 (Reuters).

  • The Lancet, rivista medica autorevole, stimava già al 19 giugno 2024 circa 37.396 decessi in Gaza (The Lancet). Questo evidenzia variazioni nei conteggi — spesso legate a difficoltà nel raccogliere dati precisi, distruzione delle infrastrutture sanitarie e di monitoraggio, e presenza di vittime non registrate o sotto le macerie.

Questi elementi spiegano le differenze nei numeri e le controversie sull’accuratezza dei dati, ma confermano che il bilancio accertato è ben sopra i 60.000 morti.


Dati sulla Battaglia di Aleppo (2012–2016)

  • Secondo la Violations Documentation Center (VDC), tra il 19 luglio 2012 e il 15 dicembre 2016, la battaglia di Aleppo causò circa 31.273 morti registrati, di cui il 76 % erano civili (pari a circa 23.600); il restante 24 % erano combattenti (Wikipedia).

  • Altri monitor come SOHR (Syrian Observatory for Human Rights) riportano circa 21.452 civili uccisi durante quei 1.612 giorni di combattimenti (Wikipedia).

Complessivamente, le stime totali delle vittime (combattenti + civili) di Aleppo oscillano tra 35.000 e 45.000 (Wikipedia).


Tabella aggiornata con fonti attendibili

# Conflitto (luogo e periodo) Popolazione pre-conflitto Durata (mesi) Decessi stimati massimi % popolazione morta/mese % popolazione morta totale
5 Gaza (2023–2025) ~2.300.000 21 60.000 (dato confermato) ≈ 0,12 % ≈ 2,6 %
6 Aleppo (2012–2016) ~2.000.000 48 35.000–45.000 (stima) ≈ 0,06–0,09 % ≈ 1,75–2,25 %

Conclusione riflessiva

I dati confermano che:

  • Gaza, pur drammaticamente tragica, risulta avere una percentuale mensile di decessi inferiore rispetto a conflitti storicamente devastanti come lo Sri Lanka nel 2009.

  • Aleppo mostra proporzioni simili—anche se inferiori rispetto alla battaglia srilankese.

Questo rafforza l'idea che, sebbene il numero assoluto di vittime a Gaza sia altissimo, il contesto di densità abitativa, tattiche di combattimento, e durata del conflitto aiuta a interpretare meglio la portata del disastro—spostando l’attenzione non solo sul numero, ma su come e perché quei numeri emergono.

É possibile  ordinare la tabella in ordine decrescente per % morti mese, o aggiunga ulteriori conflitti per approfondire il confronto,lasciamo ai lettori il miglior studio dei dati.

Altre Fonti 

Chiosa
Con questo non vogliamo giustificare nel modo più assoluto alcun conflitto, che — come spiegato fin dall’inizio — resta sempre il frutto di una follia collettiva. È un punto fermo da cui ripartire: non ci sono attenuanti né spiegazioni che possano trasformare la guerra in necessità storica o in destino geopolitico. C’è solo la responsabilità di riconoscerne la radice psichica e culturale, e di trarne le conseguenze. In questo, più che nelle cifre e nei bollettini, si misura la vera capacità di un popolo di guardare oltre l’odio e scegliere, finalmente, la cura al posto della distruzione.

Di Comitato Redazionale E.F.

domenica 22 settembre 2024

Editto Giornalistico: Alle Penne dell'Informazione Pubblica



VAGLIAMO ONESTAMENTE LA REALTÀ 

Un accorato appello alla veridicità giornalistica,

In nome della verità e della giustizia sociale, si invoca oggi a voi, o giornalisti di questa terra, la piena e consapevole responsabilità della parola scritta. Non permettete che la strada, quella stessa che molti sono costretti a percorrere, venga dipinta con i colori sbiaditi dell’ignoranza, della diffamazione, o peggio ancora, dell’indifferenza.

Non osate più definirla con terminologie ipocrite e banali, non ricadete nel facile errore di tracciare un confine tra chi è "dentro" e chi è "fuori", tra chi ha e chi non ha, tra il sicuro e l’incerto. Il volto di questa metropoli, come di molte altre simili, non può essere ridotto alla misera rappresentazione di un'umanità allo sbando. No, Milano – e con essa l’intera nazione – non è un teatro di figure isolate, abbandonate a un destino incerto per propria colpa.

L'epoca in cui viviamo ci ha reso spettatori di un crollo delle certezze, di un progressivo declino della formazione, dell’informazione, e delle opportunità. In questo scenario, è altamente complicato, se non impossibile, per moltissimi uomini e donne, giovani e meno giovani, ottenere quella qualificazione che li potrebbe condurre a un impiego dignitoso. L’assenza di strutture formative adeguate, l’inaccessibilità agli strumenti necessari per crescere e migliorarsi sono il sintomo di una società che ha disinvestito nei suoi cittadini, lasciandoli soli di fronte a un mondo del lavoro che richiede titoli sempre più inarrivabili per la gran parte delle persone.

Eppure, o voi che fate della parola la vostra professione, avete scelto di ignorare tutto ciò, dipingendo le vittime come colpevoli, i diseredati come irresponsabili. Così facendo, non siete altro che complici di una classe politica che ha disatteso ogni impegno, che ha promesso prosperità e ha consegnato abbandono. Non avete forse anche voi il dovere morale di far risuonare nelle pagine dei vostri articoli il grido di chi è stato lasciato indietro?

Osereste ancora tacere dinanzi a questo scandalo della diseguaglianza? Forse temete che, sollevando la voce contro l'ingiustizia, potreste perdere il vostro posto in questa macchina dei media, sempre più insensibile e distaccata dal reale? Ma vi assicuro, il popolo è stato paziente oltre ogni misura. È un popolo che ha visto sfumare la propria casa, il proprio lavoro, la propria dignità. Ha perduto arti e mestieri, ha visto la produttività della nazione spegnersi lentamente, come una fiamma a cui viene negato l’ossigeno.

A voi, dunque, che brandite la penna come arma del pensiero, chiedo: non sarebbe forse giusto, doveroso, umile, riconoscere almeno un accenno di autocritica? Non dovreste forse anche voi, come ogni buon servitore del bene pubblico, fermarvi un istante e considerare le conseguenze delle vostre parole? Il tempo dell’ipocrisia è giunto al termine, e chiunque continui a ignorare la realtà, sobillando l’opinione pubblica con facili giudizi, è destinato a perdere il proprio diritto di parola. Che l’informazione non si faccia strumento del potere, ma fiamma che illumina le coscienze.

Sia questo un avviso solenne, affinché chi ha orecchi per intendere, intenda. La storia non perdona, e neppure il popolo lo farà. Vi è dato di scegliere: alzare la voce contro l'ingiustizia o tacere nel silenzio della complicità.

Un editore indipendente che non tollera l’ipocrisia del nostro tempo

DonE

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